[da un mio intervento per la rubrica BorgoNews dell’Associazione Culturale Il Borgo di Parma]
Gli italiani si sono affidati al Centrodestra.
I numeri delle elezioni non lasciano dubbi. Consolarsi notando che “se il Centrosinistra fosse stato unito avrebbe vinto” è un espediente solamente retorico. I dati relativi ai seggi assegnati evidenziano una maggioranza solida per il Centrodestra tanto alla Camera, quanto al Senato. La circostanza che tutte le forze di Centrodestra siano numericamente fondamentali perché un governo di tale segno possa restare in carica è l’elemento, a mio parere, di vera debolezza di questa vittoria.
Queste premesse riportano alla memoria il precedente del 2008, allorché la coalizione guidata dal Cavaliere ebbe un risultato nettissimo, ma non riuscì a durare più di tre burrascosissimi anni, sia per l’incapacità di gestione, sia per le divisioni all’interno della maggioranza. E le divisioni di questo Centrodestra sono emerse paradossalmente anche nel giorno del trionfo. Il rischio della instabilità sembra, purtroppo, essere ancora all’orizzonte di questo paese, (ri)ponendo il problema dei problemi: quello della governabilità. Un problema fondamentale di democrazia e della democrazia italiana: l’inefficienza delle istituzioni e la loro incapacità di governo e di decisione, infatti, sono la principale causa di disaffezione nei confronti della democrazia, che è il vero tumore che può ucciderla.Del resto, l’instabilità, a ben riflettere, è probabilmente anche la causa principale del fenomeno della estrema fluidità dell’elettorato italiano che, nel giro di pochi anni, ha osannato con notevolissimo numero di voti e poi relegato nell’angolo i leader delle più diverse forze politiche.
Questa stessa instabilità concorre, altresì, ad accentuare la deviazione personalistica della politica italiana, consentendo l’emergere sulla scena come leader di personaggi del tutto inadatti al ruolo, grazie all’importanza decisiva degli slogan e delle proposte demagogiche.
L’ultimo esempio è, purtroppo, quella dell’uomo per tutte le stagioni, dell’avvocato del popolo. A proposito del quale non posso non osservare l’assurdità della lettura mediatica che lo dipinge come un vincitore: ha sicuramente ottenuto un risultato insperato, ma rispetto ai sondaggi e non rispetto alle precedenti elezioni politiche, posto che ha condotto il M5S dal 32,5% a circa il 16%! Ha perso, cioè, il 50% dei voti, ma oggi viene delineato come uno dei vincitori, perché i sondaggi di agosto lo davano sotto il 10%.
Ora, se il vero raffronto va operato, come deve essere, proprio con i dati delle elezioni del 2018, è di tutta evidenza che l’unico partito che ha vinto è Fratelli d’Italia, passato dal 4% al 26%, mentre perdono, più o meno il 50% dei voti, sia Forza Italia, sia la Lega. Resta stabile il PD, ma è una stabilità solo numerica, perché la flessione è nascosta nel dato, solo che si consideri che nel 2018 Leu-Art. 1 ha corso da solo e non in alleanza con il PD. Certamente sul risultato di quest’ultimo ha inciso anche la comparsa sulla scena della alleanza tra Azione ed Italia Viva, che ha ottenuto oltre il 7% dei consensi: un risultato oggettivamente rilevante, che ricorda (e ci sono analogie) quello dell’Asinello di Prodi. Il bello, comunque, viene adesso!
I prossimi giorni ci diranno, in primo luogo, come la coalizione di Centrodestra affronterà la formazione del governo; passaggio, che sarà certamente un primo significativo momento di verifica della capacità di questa coalizione di essere tale. Le tensioni tra gli alleati, infatti, non consentono di escludere che la pur sicura nascita del governo sia un esito obbligato, al quale nessuna delle forze alleate può sottrarsi, con la conseguenza di una debolezza politica destinata a consegnare al paese un governo sostanzialmente debole e destinato ad una vita non lunga.Si aprirà, peraltro, la stagione del confronto dentro le forze politiche sconfitte. Dovrebbe essere così per la Lega del Capitano passato dal 34% al 9% in tre anni (e dal 17% al 9% in cinque anni) e per il PD, partito nel quale l’attacco al Segretario è cominciato da troppo tempo a causa del dannato vizio della lotta intestina come (unica?) ragione di vita. Sul primo partito citato non posso aggiungere molto per la mia scarsa conoscenza delle dinamiche interne, ma è evidente che la necessità di un cambio di leadership è legata al venir meno dei temi su cui l’attuale Segretario ha costruito la sua fortuna e sulla incapacità di quest’ultimo di aggiornare la sua proposta. Per quanto riguarda il PD, mi sembra evidente che, pur se ha sbagliato la campagna elettorale, la pretesa di addossare al Segretario l’esclusiva responsabilità della sconfitta risponda solo all’esigenza dei veri responsabili di allontanare l’attenzione da sé e alla ritrosia di affrontare le cause della situazione. E senza affrontare le cause il futuro sarà comunque precario.Il Segretario, con un gesto di grande sensibilità, ha comunque eliminato la sua questione personale, lasciando sul campo il problema (oggettivo) di questo partito.Il PD può recuperare un ruolo di protagonista solo affrontando i nodi veri:
la mancanza di una missione condivisa, che è la base di ogni forma di associazione e, quindi, anche di un partito, che risponda alla funzione assegnata dall’art. 49 della Costituzione e che non sia una semplice sommatoria di carriere individuali;
la accettazione del PD come partito pluralista e, pertanto, inscindibilmente fondato sul confronto delle idee e sulla reale e profonda tolleranza delle opinioni altrui e sulla conseguente accettazione della regola della democrazia interna, che richiede la capacità tanto di essere maggioranza quanto di essere minoranza;
in questa logica, si collocano con assoluta chiarezza due profili tra loro, per la verità, collegati. Da un lato, l’irrisolta questione della fusione a freddo e, dall’altro, quello del partito riformista o del partito massimalista. Si tratta di due facce della stessa medaglia. Il PD, infatti, non può essere il partito della nostalgia e non potrà sopravvivere se prevarrà la logica della volontà di sottometterne una parte alla visione dell’altra. Questo partito – piaccia o no – è nato per contaminare, per introdurre nuove sintesi, per offrire una risposta riformista, che avesse il pregio di essere il frutto della confusione (nel senso etimologico del termine) tra le diverse sensibilità, chiamate non a nascondersi, ma neanche ad avallare un contesto di pura e perdurante antitesi tra posizioni cristallizzate. Ed è nato per essere un partito riformista, cioè un partito che, sulla base dei valori costituzionali costituenti l’unico suo riferimento valoriale, sappia farsi carico della società italiana tutta non in una logica classista, ma in una logica solidarista. Il che comporta la capacità di avere come unico scopo l’equilibrio sociale, la lotta delle disuguaglianze e la crescita della società nel suo complesso, chiamando tutti alle proprie responsabilità, imponendo le scelte conseguenti, epperò sempre sfuggendo alla logica della “caccia alle streghe” e alle logiche assistenzialistiche, che tanto piacciono all’avvocato del popolo;
il recupero delle capacità di proposta politica chiara e netta in totale superamento del deleterio approccio “burocratico” più volte affiorato, così da uscire dalla dimensione del partito del “ni”, che ha caratterizzato la storia di questo partito con la sola parentesi del primo Renzi: gli elettori, infatti, più che mai in questo passaggio, non sono riusciti a trovare la risposta alla domanda sulla natura del PD;
il ritorno alla Politica con l’abbandono del tatticismo esasperato, la cui affermazione dal 1998 in avanti ha annullato la capacità di visione politica del centrosinistra. È necessario, in altri termini, recuperare il coraggio della sfida su idee e proposte, abbandonando il vizio (perdente) della sommatoria delle sigle di partito. Il monito di De Gasperi (“Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alle prossime generazioni”) dovrebbe diventare il mantra del PD.
Sarà, infine, importantissima la caratterizzazione dell’opposizione, che dovrà condurre il PD stesso.
Il contesto di grandissima complessità umana, sociale ed economica, nel quale si svolgerà quanto meno la prima fase della legislatura, rende questa attività particolarmente difficile perché impone prese di posizione di merito e non consente (per fortuna) il “no per il no”.