Il «rebus» del referendum sulla riduzione dei parlamentari

Il numero dei parlamentari fissato in Costituzione non è un dogma.

La loro riduzione, però, non può essere giustificata dal tema del costo dei parlamentari: demagogia pura e qualunquismo istituzionale. Basti considerare che sotto questo profilo sarebbe sufficiente provvedere alla ridefinizione del trattamento economico, oggi tatticamente (ma solo tatticamente!) annunciato come passaggio successivo dal ministro degli Esteri.

La riduzione dei componenti delle Camere non può essere nemmeno lo strumento per demolire la democrazia rappresentativa, che è elemento fondante del nostro assetto democratico e costituzionale, ma deve essere il frutto di una riscrittura organica, che definisca un diverso assetto del nostro disegno bicamerale.

La riduzione, infatti, non deve indebolire il sistema rappresentativo, ma deve rafforzarlo. Questo, da ultimo, era quanto previsto dalla riforma costituzionale bocciata con l’ultimo referendum del 2016: la c.d. riforma Renzi, infatti, prevedeva il taglio di 215 senatori proprio legando la riduzione ad un mutamento profondo delle funzioni del Senato.

Il mero taglio numerico, al contrario, lascia irrisolti tutti i nodi del bicameralismo italiano e toglie rappresentatività al Parlamento. A chi giova? A chi persegue non da oggi la demolizione della democrazia rappresentativa per una democrazia “diretta”(piattaforma Rousseau!?) in nome di un populismo senza costrutto e di un giustizialismo, peraltro a corrente alternata, non meno inaccettabile.

Il quadro è, peraltro, aggravato dalla prospettiva, che spero rimanga tale, di una legge proporzionale con liste bloccate. Questo accentuerebbe enormemente nel Parlamento ridotto lo strapotere dei tre o quattro (non di più!) segretari dei partiti in grado di superare il quorum elettorale e contribuirebbe ad accentuare pericolosamente la partitocrazia, annullando in radice la possibilità di un qualsiasi margine di autonomia dei singoli parlamentari nell’esercizio delle proprie funzioni in contrasto con la Costituzione. La storia insegna, peraltro, che i parlamenti di yesman sono funzionali solo ai sistemi oligarchici o dittatoriali.

E in questo momento l’Italia, certamente, di tutto ha bisogno tranne che dell’ulteriore indebolimento delle istituzioni democratiche. A questo riguardo, lascia preoccupati il fatto che venga denunciata ora la necessità di una diversa legge elettorale e/o della modifica dei regolamenti parlamentari perché la riforma sia approvabile. Non era il caso di mettere a posto tutte le caselle prima di determinare la celebrazione del referendum, che così appare un salto nel buio?

Questi sono i nodi principali, ma non gli unici.

Tra i tanti, ne voglio citare uno: i collegi diventerebbero molto più grandi, creando le premesse per allontanare ancora di più la rappresentanza parlamentare dagli elettori. E questi neanche potrebbero selezionare i candidati attraverso le preferenze.

Esasperazioni dialettiche? Temo proprio di no ed è per questo che scelgo la strada impopolare del “no”. In questi giorni, ho cercato di leggere molto sul tema a partire dai lavori dell’assemblea costituente e dal pensiero dei padri costituenti. Mi hanno fatto meditare assai le parole del presidente dell’assemblea costituente, Umberto Terracini, che ammonì a suo tempo sui rischi di una composizione numerica delle Camere tale da non garantire un’adeguata rappresentanza dei territori e che si scagliò contro le ipotesi di riduzione per mere ragioni di costo. Parole che suonano anche oggi come monito, sottolineando che piuttosto che una riforma qualsiasi è meglio non riformare.

Del resto, il fatto che tutti i progetti di riforma avanzati dalle varie commissioni bicamerali abbiano sempre legato la riduzione del numero dei parlamentari alla riforma del sistema bicamerale qualcosa significherà oggettivamente.

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