La riforma opera un capovolgimento del senso: chi ha sbagliato ha il diritto di rifarsi.
Gli interventi partono ai primi segnali di crisi, non dopo l’insolvenza. Anziché partire dalla punizione della società, la nuova logica è quella di superare la crisi.
Di seguito una mia intervista a Patrizia Ginepri, dal supplemento Economia della Gazzetta di Parma di Lunedì 6 novembre 2017.
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Il senatore parmigiano è stato il relatore del disegno di legge. E spiega che anziché partire dalla punizione della società, la nuova logica è quella di superare la crisi.
La riforma del diritto fallimentare è legge, approvata definitivamente al Senato con 172 sì. Siamo di fronte a nuovo testo in materia, contenente importanti novità normative sia sul piano della disciplina sostanziale, che su quello delle disposizioni processuali con significative semplificazioni razionalizzazioni delle procedure e dei rapporti tra le stesse.
Il senatore parmigiano del Pd Giorgio Pagliari, è stato il relatore al disegno di legge «delega al governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza».
«Con la legge delega approvata in modo definitivo si segna un’importante svolta nella disciplina dell’insolvenza – mette subito in evidenza Pagliari – viene inserita nell’ordinamento italiano una normativa richiesta dall’Ue e attesa dal mondo produttivo». Qual è l’aspetto più innovativo della riforma? Andando oltre il regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, si pone al centro il superamento della crisi dell’insolvenza dell’azienda e non il tema del debito e della sua punizione. La procedura disegnata, a partire dalla fase preventiva dell’allerta, si muove nella logica di ricercare fino in fondo tutte le possibilità di superare la crisi aziendale per salvare le attività imprenditoriali, i posti di lavoro e le famiglie stesse degli imprenditori, evitando le drammatiche conseguenze che il fallimento comportava secondo la disciplina prevista, appunto dal regio decreto. L’idea di fondo è mettere al centro il tema della crisi dell’impresa e del tentativo di salvarla senza pregiudicare i diritti dei creditori, imponendo a tutto il sistema di ricercare una soluzione positiva.
Come si applica questo principio?
Siamo di fronte a un capovolgimento, perché quando si parla di liquidazione giudiziale e non più di fallimento non è semplicemente una questione di nominalismi. In questa diversa logica il fallimento non è più un’etichetta che segna per sempre. Il senso è sostanzialmente: hai sbagliato, se devi pagare paghi, ma hai il diritto di rifarti.
In questa riforma tutte le procedure previste sono concatenate tra loro, una sequenza prevista per legge nella logica di salvare il sistema. La liquidazione giudiziale va vista, infatti, solo come ultima soluzione. Si parte con l’allerta. Di fronte a segnali di crisi, non ancora di insolvenza, incapacità di adempiere, si mette in moto un meccanismo con il quale si interviene per cercare di trovare le soluzioni alla crisi. In sostanza si cerca di prevenire la condizione fallimentare, tant’è che sono previste anche procedure extra negoziali che prima non erano contemplate. Questo significa anche salvare un’attività produttiva, posti di lavoro, evitare il più possibile di mettere persone e famiglie in difficoltà.
Come si è arrivati a questo capovolgimento?
Ha sicuramente le sue radici in una riflessione dettata dalla crisi mondiale, che ha portato in molti casi, in Italia e non solo, a fallimenti di imprese che non dipendevano dalle responsabilità gestionali dell’imprenditore ma da questioni macroeconomiche. Ecco che ora la crisi dell’impresa viene assunta come un problema di interesse generale prima che come una questione di responsabilità giuridica. Questa non viene cancellata, sia chiaro, ma mentre la legge del 1942 di fronte alla crisi prevedeva l’istanza di fallimento e il tribunale, addirittura poteva dichiararlo d’ufficio, in questa procedura prima di arrivare alla liquidazione giudiziale, occorre verificare tutte le condizioni. Solo se è proprio impossibile il salvataggio si procede con la liquidazione giudiziale.
Cosa cambia a livello di procedure?
Ci sono poi regole per accelerare le procedure, ci sono tempi precisati per esaurire le varie fasi, perché si vuole uscire dal dramma di un sistema che porta i fallimenti a durare 10 anni e più. La riforma introduce, inoltre, il criterio dell’albo nazionale dei curatori fallimentari e si pone un principio di trasparenza e di rotazione.
Qual è l’iter ora?
Naturalmente il quadro definitivo della disciplina emergerà dai decreti delegati. Sul testo della riforma si sono espresse a favore tutte le forze politiche, tant’è che hanno tutti trasformato gli emendamenti in ordini del giorno per agevolare e comunque gli stessi emendamenti non toccavano l’impostazione e i punti qualificanti di questa riforma.
Qual è il suo giudizio su questa legge?
Occorre sempre verificare sul piano concreto come la riforma viene recepita e come incide sulla realtà. Io credo, tuttavia, senza enfasi, che vi siano le premesse per cambiare l’orizzonte della crisi dell’impresa. Questo perché la riforma considera le crisi aziendali un problema sociale, economico e quindi occorre un iter che accompagni l’azione di tutela dei creditori e di verifica delle responsabilità del debitore con una forte azione mirata a far si che la responsabilità dell’imprenditore non travolga la stessa impresa. Tutto questo risulterà pienamente efficace quando sarà concretamente applicato.
I tempi?
La parte in atto è a livello governativo e ministeriale. L’intenzione è di accelerare con i decreti delegati, poi seguiranno i vari pareri e l’approvazione. Questi passaggi richiedono mediamente 3 o 4 mesi, probabilmente si andrà alla nuova legislatura
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