Tre grandi mistificazioni del “no” al referendum del 4 dicembre

Nel dibattito in corso sul referendum i sostenitori del “no” sostengono tre grandi mistificazioni: 1) che la riforma costituzionale rappresenti un pericolo per la democrazia, 2) che il nuovo Senato sia un pasticcio e 3) che il combinato disposto tra riforma e Italicum porti al presidenzialismo autoritario.

A smontare la prima accusa ci hanno pensato, meglio di tutti, 56 ex presidenti della Corte Costituzionale e autorevoli professori di Diritto costituzionale che con una argomentata lettera hanno negato che esista questo rischio. La riforma, infatti, non modifica la forma di governo, che resta parlamentare, ma cerca di razionalizzare e adattare ai nostri tempi il ruolo del Parlamento distinguendo le funzioni della Camera da quelle del Senato in coerenza con quanto sottolineato dagli stessi padri costituenti. Del resto, se fosse fondato l’allarmismo degli oppositori, l’intera classe politica degli ultimi trent’anni andrebbe accusata di aver attentato alla democrazia, giacché tutte le  commissioni parlamentari finora costituite per la riforma costituzionale hanno affrontato la questione del superamento del bicameralismo perfetto: dalla Bicamerale presieduta da D’Alema, alla legge di Berlusconi, fino dalla proposta Violante del 2012, tutti hanno prospettato lo stesso schema parlamentare contenuto nella Riforma Boschi. Ogni commento sulle posizioni di alcuni “protagonisti” di questa competizione referendaria appare, perciò, superfluo.

Nel merito, il bicameralismo proposto dalla Riforma Boschi disegna un Parlamento funzionale anche alla mutata realtà istituzionale del Paese; basta pensare al ruolo assunto dalle Regioni (che nel 1948 e fino al 1970 erano solo sulla carta) e dai Comuni. Nel nuovo assetto istituzionale la Camera dei Deputati – che rimane l’unica camera politica eletta in rappresentanza dei cittadini su base nazionale – svolge la funzione tipica della democrazia rappresentativa: quella di dare voce al popolo tramite i rappresentanti scelti dagli elettori. Il nuovo Senato – composto da consiglieri regionali e sindaci, privo della sua attuale funzione politica e rappresentativo delle comunità territoriali-  assolve invece alla funzione di dare alle Autonomie locali un luogo di maggiore rappresentanza istituzionale dei territori. In tal modo si realizza la sintesi tra l’articolo 1 della Costituzione (la sovranità appartiene al popolo) e l’articolo 5 (la Repubblica riconosce e garantisce le autonomie) e si crea un punto di equilibrio avanzato del principio di sussidiarietà postulato dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione.

Fino ad ora non ho sentito nessuno criticare, con argomentazioni di merito, questa impostazione, che è però la struttura portante della riforma. Ho apprezzato, invece, l’onestà intellettuale del professor Valerio Onida che, in un recente dibattito a Roma nel quale ho avuto l’onore di essere il suo interlocutore, ha riconosciuto che il modello in sé è valido, pur ritenendolo tecnicamente mal costruito e non sostenibile.

La seconda mistificazione è quella relativa alla riforma “scritta male”. Non una obiezione di merito ma di forma, dunque, che però per i sostenitori del “no” sarebbe sufficiente a “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Ciò premesso, perché sarebbe mal scritta? Per via soprattutto dell’articolo 70 che elenca dettagliatamente le materie di competenza paritaria tra Camera e Senato. Orbene, il tema della suddivisione delle competenze richiede da parte del legislatore il massimo di attenzione, come insegna la lunga sequela di ricorsi per conflitto di attribuzione in materia legislativa tra Stato e Regioni. Quella elencazione, di faticosa lettura, ha quella origine, e trova un precedente assai significativo nella legge fondamentale tedesca, con le norme che riguardano la distinzione tra Bundestag e Bundesrat. La riforma sarebbe, inoltre, mal scritta e tecnicamente errata perché prevede troppe modalità differenziate sul potere di rinvio del Senato per le leggi approvate dalla Camera. Ma tale differenziazione era doverosa, anzi obbligata, giacché è evidente che un conto è rinviare alla Camera una legge ordinaria e un conto è rinviare la legge di bilancio.

La terza e ultima mistificazione riguarda il cosiddetto combinato disposto tra legge costituzionale e legge elettorale che renderebbe potenzialmente “autoritaria” la nuova Carta. Una tesi priva però di un substrato sostanziale sia sul piano giuridico formale sia su quello politico. Sotto l’aspetto giuridico, infatti, occorrerebbe dimostrare che la riforma può funzionare soltanto con l’Italicum, ed è emblematico che nessuno abbia sostenuto questa amenità, mentre sono tanti a fondare la loro opposizione alla riforma costituzionale soltanto con le critiche alla  legge elettorale. Che è come dire: la riforma costituzionale potrebbe anche andare bene, ma non va bene la legge elettorale, per cui per fermare la legge elettorale bisogna fermare la riforma costituzionale.

La legge elettorale verrà sicuramente migliorata, ma è tutto tranne che un modello totalitario. Va ricordato, a questo proposito, che sistemi maggioritari sono in vigore in molte delle democrazie più consolidate, e proprio per garantire meglio la dialettica democratica: con la  maggioranza che ha il diritto-dovere di governare e l’opposizione che fa l’opposizione. Abbiamo vissuto 25 anni di esasperato consociativismo durante i quali questa dinamica essenziale della democrazia è stata sostanzialmente sospesa, con gli effetti che tutti abbiamo potuto vedere. Restituire la piena responsabilità  della scelta della maggioranza di governo al popolo risponde quindi, pienamente, al principio costituzionale della sovranità popolare, nonché all’esigenza di introdurre la forma più fisiologica nella dialettica tra le forze politiche.

Una democrazia in crisi ha bisogno di recuperare credibilità e ciò non può avvenire che restituendo efficienza, funzionalità e capacità decisionale alle istituzioni. Questo è lo sforzo compiuto dal Governo e dalla maggioranza e questa è l’opportunità su cui saranno chiamati a decidere i cittadini, ai quali il 4 dicembre spetterà di scegliere se restare nel sistema parlamentare bloccato di oggi, con 945 parlamentari, o trovare un modello semplificato e alleggerito di 215 parlamentari.

A presto,

Giorgio

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